Non avevo idea di che ora fosse. Sapevo solo che era la
fine.
Quando è finita lo senti, disse mia nonna un giorno, la fine
la si riconosce sempre, ha un non so che di familiare, forse perché è con noi
dal momento in cui veniamo al mondo.
Soffocate nell’ovatta, voci lontane mi scuotevano, non ero
affatto convinta di voler tornare ma nemmeno di andarmene, ero in quello stato
semibeato dell’incoscienza dove tutto va avanti eppure tu sei tragicamente
fermo.
“Chi sei?”
“Valeria! Su! Abbiamo finito” la voce del dottore grattava
come Il tubo nella faringe tirato su di
colpo .
Aperti gli occhi, rassicurato lui, mi abbandonai ad un sonno
senza sogni.
“Tutto si trasforma. Ci saranno altri inizi ora” disse
Monica. Lei era sempre gentile con me, io ero solo perplessa e stanca, chiusa e
inaridita.
Continuava a sfiorarmi quell’idea di aver sbagliato. E
quella di essere io stessa sbagliata.
“Scrivi tutto, ti aiuterà” aveva detto lo psicoterapeuta.
Non è ironico come spesso le persone sappiano meglio di te
cosa possa farti bene? E non è ridicolo che io non riesca più ad ascoltarmi?
Forse è solo triste. Triste come quel viso dannatamente
bianco che continua a sorridere plasticamente ad uno specchio sporco.
Non ero molto lontana dalla stazione e nemmeno dalla verità.
Come aveva potuto
restare tutto quel tempo nudo nel freddo senza cambiare colore? Dove ero stata
io?
Io non c’ero.
Perché sono qui?
Qualcuno mi ha presa in braccio. Si, poi non so. Che cosa
dire?
Voglio solo dormire ancora.
Mi guardava, come se volesse dirmi qualcosa, ma non usciva
niente da quella bocca.
Non riuscivo a fidarmi. Passavo ore a convincermi che ero
solo impaziente, che non poteva essere così.
Ma non è mai diversamente.
La porta era socchiusa, la gola secca mi spaccava il fiato
tenendomi stretta in una morsa.
Ero io la piccola mosca di cristallo, quella ragazzina
viziata di cui ridevi, disprezzavi ogni cosa eppure dicevi di saper amare e io
non potevo ferire l’orgoglio dando retta a Dio.
Che scelta stupida adattarsi!
Non capivano niente, dovevo ricominciare daccapo. Non sapevo
cosa dire, non sapevo che altro inventare.
“ Stai mentendo Valeria?” “No dottore, se è tutto vero, che
altro potrei aggiungere?”
Detesto quando ti gettano addosso quello sguardo di falsa compassione
squadrandoti come se tu fossi senza gambe e loro sapessero come ci si sente.
“Voglio solo andare a casa”
Sei tu mentre
farnetichi,
Mentre ti fai scudo di
un sorriso beffardo,
Sei tu mentre mi
mastichi
Sputando la mia parte
più bella.
Sei tu mentre
impoverisci gorgheggiando sentenze.
Ma non puoi essere tu
ora, con gli occhi bassi, senza difese.
Quante poesie ritrovate in un cassetto, ho scritto molto per
te sai?
No, non lo sai.
Non ho mai voluto cambiarti ma c’è stato un momento in cui
ho desiderato cambiarmi per potermi far
amare da te. Mi sono ferita tanto da sanguinare per giorni. Tu sembravi solo
finto.
Come un pupazzo eri lì, vicino tanto da essere distante.
Mi è sempre risultato piuttosto facile convertire il dolore
in arte, ma la rabbia sono riuscita a convertirla solo in sesso.
Né più né meno che carne da sfogo, io non c’ero.
“Tutto quel tempo dove sei stata Valeria?” Domanda ora una
voce.
“Io per tutto il tempo non so dove sono stata ma non ero lì,
non ricordo di aver mai fatto altro che resistere”
Ricordare frasi spicciole, banalità, omissioni, bugie e
parole sprecate, respiri difficili e tensioni ricorrenti, notti accese e albe
acide. Con la cola mio zio ci pulisce la pistola, vedi mamma non fa poi così male.
Tu e la tua arroganza, di null’altro ti sei curato se non
di mantenerla viva
Ora è tutto da sistemare, ci sono le mie cose in mezzo. Ci
sono carte, vestiti, nastri, il mio ultimo pacchetto di sigarette prima di
riprendere a smettere. Chi sistemerà tutto questo casino? Che mi succede? Sono
in uno stato alterato? Non è come prima ma non so spiegare la differenza.
Tua madre, una firma, un sostegno emotivo, che succede? Cosa
ci fanno queste macchie qui? Non sono più io. Ma ero io prima di tutto questo?
Chi ero? Chi sono ora?
Non ho più desideri, voglie, sono apatica, sono sola ma sto sempre con qualcuno.
Eppure sola mi ci sento spesso.
Sul terrazzo la pioggia sporca quel tavolo al centro, è
tutto secco intorno, la terra non ne ha abbastanza di acqua. Io, in mutande
sono ferma lì a sentire le gocce scendere, non so più dire una parola.
Alla prima ero stata davvero brava. Mi avevano applaudito.
Tu in platea c’eri. Non sono riuscita a scorgerti ma so che c’eri, miravi al cuore ma non potevi che colpire
altrove perché avevi gli occhi dietro.
Sono arrivata, questa è la mia fermata. Scendo.
Non ho di nuovo
timbrato il biglietto, lo tengo nel caso debba per forza timbrarlo per non
prendere di nuovo una multa. Questa cosa mi costringe a fare attenzione, ad
essere presente.
Sto sviluppando un'altra me che non chiede, non da, è là e
basta.
Hai di nuovo comprato quel pane che mi piace tanto? Hai
provato a sentire se ha lo stesso sapore?
Assaggiare. Bisogna assaggiare. Non si può mai sapere. Devi
sperimentare non con il corpo ma con l’anima. Il corpo è un mezzo, non è altro.
L’anima dov’è? E’ sempre stata là, ma non te ne rendevi conto che in un angolo
sghignazzava del tuo non scegliere
perché scelto?
Del tuo prendere ordini da un padre generato da te?
Di un padre figlio, di un inganno?
Ora rido, rido di tutto, sembro pazza, qualcuno la pensa
così, è una cosa che non ha importanza, niente ha più rilevanza ora del mio
proseguire rimanendo sempre qui.
Non è uno stagno, non più. E’ un oceano. Ci sono tutte
quelle specie di pesci che amavi, ci sono tutti quei mostri nascosti dal buio.
Ora però che mi avvicino, li vedo: sono solo brutti, non hanno più nessun
potere. Non ho più paura. Non sono mostri che nel cuore chiuso. Sono quello che
sono.
Il vomito è ancora lì. Quella nausea, quel disturbo c’è
ancora. C’è sempre ma non è padrone. Niente è più come prima eppure tutto è
uguale.
Da piccola disegnavo, cantavo, avevo la vena artistica. In tutto quello che facevo c’era un pizzico
della follia tipica degli artisti. Non è follia, in verità ti dico è una gamma
espressiva più ampia.
Poi mi hanno tagliato le vene.
E da grande mi hanno detto che non avrebbero potuto farlo se
io non lo avessi permesso.
Allora io l’ho permesso. Allora è giusto che io venga punita
perché non ho difeso i sogni come avrei dovuto. Ma io credevo dovesse
difenderli mio padre.
Ho creduto male. E poi? E poi, ho smesso di credere.
“Credi in Dio?” Domanda ricorrente nei momenti di crisi.
Sarebbe opportuno chiedere: “Senti Dio?” A volte il sabato
sera intorno all’una di notte.
“Valeria! Svegliati!”
La strada è scoscesa,
arranco con fatica, sento il respiro, eccomi ci sono.
Valeria dove sei? Sono qui.
Sei qui con me, cammina. Eccoci. L’una e l’altra siamo qui.
Siamo noi. Siamo Valeria.
Sono morta? Non ancora.
Che cos’è questo brusio di voci lontane. Sono ricordi. E
quelle macchie? Sono i pensieri.
Dov’è la mia vita. Non c’è la tua vita. C’è la vita. Sei su
questo treno da un po’ lo sai?
Quando ci sono salita? Non ricordo niente.
Hai scelto di salirci molto tempo fa. Sforzati di ricordare.
Allora eri una piccola luce.
Eri alla ricerca di un tunnel per realizzare il tuo destino,
quello di essere speranza per tutti coloro che erano alla fine.
Non l’ho salvato. Io non l’ho salvato. Non ho potuto. Non c’ero.
La speranza è solo una luce non è una mano. La mano è di Dio.
Lascia a Lui il Suo compito.
Perché ho sofferto tanto? Perché eri cieca. In realtà niente
finisce. Tutto è solo di passaggio e tutti abbiamo un compito da assolvere.
Quale? Riuscire a vedere.
“Valeria, svegliati!!!”
“Cos’è questo rumore?”
“Defibrillatore.”
“Scarica!”
“No! No! Ancora! Scarica! ”
Stanno generando resistenza, non devi lasciarti confondere,
devi scegliere tu ora. Andare o restare.
La camera bianca e spartana odorava di candeggina e rose,
dalla finestra sbucava il ciliegio del giardino accanto, era di nuovo
primavera.
C’era lo schermo, c’ero io e c’era tutto il resto. Ora che
ero di nuovo in me, mi alzai bevvi dell’acqua fresca e respirai.
“Dove sono tutti?” Chiesi
a voce alta.
Non c’è mai stato nessuno Valeria. Hai solo sognato.
“L’ho ucciso. Sono stata io non è così?”
Quando? Quando è successo?
“Non lo so.”
Valeria non c’è mai stato nessuno.
Al pianterreno un gatto grattava alla finestra, un randagio abituato
ad avere qualche scarto durante le ore dei pasti.
Scesi le scale piano, con la testa ancora fra le mani, non
avevo che quei passi, quelle mani strette intorno alle tempie, non c’era
davvero più nessuno. Cosa fosse successo non era più importante, io ero andata
via ed ero tornata. Lui era rimasto il tempo necessario per realizzare il suo e
il mio destino. Non aveva vinto nessuno, non era una partita. Ora non sapevo
dov’era, non sapevo nemmeno cos’era stato quell’attimo, non mi interessava più
sapere nemmeno se c’era stato un qualcosa di quello che descrivono nei romanzi
come amore. Ora c’è un gatto da sfamare alla finestra, una donna da curare e
una vita da vivere. C’è che non mi va più di spiegare. Quel bisogno di
approvazione non c’è più. Sto bene. Sono libera.
Suona ripetutamente il campanello, suona, suona. Arrivo. La
porta è già stata forzata. Ci sono di nuovo tutti.
Non era stato un sogno. Qual è la realtà? Mi portano via. Di
nuovo. Ma sulle mie gambe stavolta.
L’ho ucciso. Non sono stata io ma a loro non importa.
Mi spiegarono
che se non l’avessi fatto mi avrebbe uccisa. Continuavo a ripetere: Non sono
stata io.
“Perché non mi credono? Che mondo è mai questo?” chiesi
disperata.
Silenzio.
“Sveglia Valeria!!!”
Un urlo. Poi nulla. Ora ero di nuovo nel mio corpo, la
sensazione di sogno era svanita.
Mi avevano operata, avevo rischiato di morire. E perché?
Aveva provato ad uccidermi.
"Allora non l’ho ucciso. E’ morto. Come? Nel gelo?
L’ho visto prima."
Nello specchio, ora ero chi avevo sempre desiderato essere.
Quell’uomo non c’era più. Ma il ricordo sarebbe riaffiorato in un angolo che
solo io conoscevo.
“Hai bisogno di riposare” disse un’ infermiera con aria
severa.
“Ho bisogno di andare al mare” risposi dolcemente.
P.